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Imprese memorabili e dolori per la stagione patagonica dei "maglioni rossi"

I Ragni di Lecco, gruppo di cui fa parte anche il sondriese Matteo De Zaiacomo, si raccontano con storie e fotografie.

Imprese memorabili e dolori per la stagione patagonica dei "maglioni rossi"
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Momenti esaltanti e memorabili e, purtroppo, vicende terribili hanno caratterizzato la stagione patagonica dei Ragni di Lecco di cui fa parte Matteo De Zaiacomo, classe 1993.

Nelle passate settimane i media hanno dato ampiamente notizia di ciò che è accaduto sul Cerro Torre, parlando sia del terribile incidente di cui sono state vittime  gli amici dei Maglioni Rossi  Thomas Aguilo “Tomy” e Corrado Pesce “Korra”, sia delle nuove vie aperte.

Stagione patagonica tra imprese memorabili e dolore

"Riteniamo importante dare una visione complessiva e dettagliata di ciò che i nostri alpinisti hanno fatto nei mesi scorsi dando spazio ai  report che loro stessi hanno stilato - spiegano i Ragni  -  Con l'apertura della via in stile alpino sulla Est del Cerro Torre Matteo Della Bordella, David Bacci e Matteo De Zaiacomo hanno chiuso un ciclo degno delle pagine più belle della nostra storia.

Un'epopea che Matteo Della Bordella aveva cominciato assieme a Matteo Bernasconi e Matteo Pasquetto, due grandi compagni di cordata che ora non sono più con noi, ma che - ne siamo certi - sono stati accanto ai nostri ragazzi in tutta questa sfida estrema. La spedizione esplorativa di Luca Schiera e Paolo Marazzi sul Campo de Hielo Norte è, invece, un passo in avanti, nella costruzione di una nuova avventura che sicuramente saprà regalarci altri grandi sogni ed emozioni".

I colleghi di PrimaLecco riportano dunque i racconti dei maglioni rossi.

Spedizione al Campo de Hielo Norte, di Luca Schiera

Come sempre le cose non sono andate come avevamo previsto. Una cosa che ho imparato in Patagonia è che bisogna sempre essere pronti ad adattarsi alle forze della natura, che spesso è un vento feroce...

Questa volta volevamo attraversare il Campo de Hielo Norte da nord a sud per arrivare alle grandi pareti da scalare fra le montagne che si trovano nell'infinita distesa di ghiaccio. Era la nostra terza esperienza in questo posto e sapevamo abbastanza bene cosa avremmo trovato, ma fin dal primo giorno non sono mancati gli imprevisti. Però, comunque sarebbe andata, sapevamo che avremmo trovato l'avventura totale e il senso di incertezza che cercavamo.

Con il prezioso aiuto di Andrea, scalatore italiano trasferito in Patagonia proprio per esplorare lo Hielo, siamo arrivati sulle rive del lago Leones da dove abbiamo iniziato a traghettare tutta la attrezzatura fino all'inizio del ghiacciaio. Il 16 gennaio abbiamo iniziato a camminare sullo Hielo. La prima sorpresa è stata trovare subito uno spesso strato di neve fresca, che ha reso pericoloso oltre il ragionevole la salita per arrivare sul Campo de Hielo, dopo diversi consulti e un tentativo anche di notte siamo scesi per sperare in un miglioramento. Così abbiamo passato lunghe giornate nella tenda scossa dal vento prima di un'altra finestra di bel tempo.

Siamo partiti il 25 gennaio per un giro di quattro giorni: all'alba del secondo finalmente abbiamo salito il passo, da lì ci siamo goduti una lunga discesa sugli sci. Poi il resto del giorno lo abbiamo passato tirando la slitta fino ad arrivare sotto alle prime pareti di roccia.  Al terzo giorno è iniziato il conto alla rovescia: entro l'alba successiva saremmo dovuti essere già fuori dal ghiacciaio per non rimanere bloccati dal brutto tempo.

Abbiamo quindi scalato una via semplice, 300 m fino a 6a, dalla cui cima ci siamo fatti una idea del percorso migliore da seguire al ritorno e siamo scesi alla nostra tenda. Dopo una breve pausa guardando il tramonto siamo ripartiti verso sud. L'idea era di "pellare" intorno a questo gruppo di montagne, sperando di trovare un percorso più semplice rispetto a quello di andata. Ci aspettavano ancora decine di chilometri e dovevamo salvare il più possibile le energie. Abbiamo passato tutta la notte cercando i crepacci sotto agli sci e navigando con gps e cartina nel buio totale su terreno sconosciuto.

Il piano funzionava alla perfezione ma più ci avvicinavamo al passo più la mancanza di sonno, unita allo stress costante nel trovare la via più sicura, ci stava portando al limite. In passato ci è capitato più volte di camminare o arrampicare di notte, ma questa situazione è stata del tutto surreale. Quattro giorni più tardi eravamo sulle rive del lago ad aspettare la barca per il ritorno.

Brothers in arms – Il racconto della salita di Matteo Della Bordella

Aldilà delle forti emozioni, un racconto più tecnico della nostra salita. Lunedì 24 gennaio arriviamo all’accampamento “noruegos”. Il clima è freddo e parecchio ventoso, non promette nulla di buono. Volgo lo sguardo alla parete e torno verso Giga e David, scuotendo la testa.

È un film già visto: è bastata una singola perturbazione passata nei giorni scorsi per appiccicare la neve sulle placche della Est del Torre e renderle così inscalabili. In serata il vento rinforza, ci rifugiamo nella nostra tenda e passiamo la nottata come in una “lavatrice”, con il telo che sbatte all’impazzata qua e là. Abbiamo quasi perso ogni speranza di attaccare la parete l’indomani ed infatti non puntiamo nessuna sveglia e restiamo nei nostri sacchi a pelo fino alle 8. Dopo aver fatto colazione, il tempo svolta verso il bello. Nonostante siano già le 9 di mattina e un po’ straniti da questo orario di partenza “falesistico”, decidiamo comunque di dirigerci verso il Torre, con l’idea di attaccare la parete qualora le condizioni fossero state buone. Quando arriviamo alla base il tempo sembra perfetto, il vento è calato e la temperatura si è mantenuta comunque bassa, il che per noi è un vantaggio nella prima sezione di placche esposte a potenziali cadute di ghiaccio dall’alto. Sono ormai le 11,30 quando attacchiamo la Est.

Avendo già percorso questi primi 500 metri di parete in due precedenti tentativi nel 2019 insieme a Matteo Pasquetto, per fortuna riesco ad essere abbastanza veloce su tutte le lunghezze. Intanto i miei compagni David e Giga svolgono un lavoro titanico nell’issare la gran quantità di materiale che abbiamo con noi. Siamo pesanti, ma alle 19,30 circa, raggiungiamo il luogo prescelto per passare la notte. Bivacchiamo proprio di fianco al famoso “box degli inglesi”, ovvero una struttura di lamiere e teli, fissata in parete nel 1981, e costruita da Ben Campell-Kelly che la utilizzò insieme a Brian Wyvill, Phil Burke e Tom Proctor. Purtroppo, al giorno d’oggi non restano che pochi rottami accartocciati ’uno contro l’altro e questo riparo è assolutamente inagibile, ma grazie alla nostra portaledge abbiamo la possibilità di coricarci comunque in orizzontale.

Mercoledì 26 gennaio è il compleanno di Giga. E quale miglior regalo per lui se non quello di partire da primo sul prossimo tiro sulla Est del Cerro Torre? Giga risolve il tiro sopra il bivacco e poi il successivo strapiombo che conduce all’entrata del diedro, scalato in arrampicata artificiale. Quindi David prende il comando della cordata sui primi tiri veri e propri del famigerato “diedro degli inglesi”. Con due lunghi ed estenuanti tiri di “offwidth” che lo obbligano ad una scalata rude e fisica, arriviamo nella grossa nicchia posta quasi a metà del diedro. Insieme a Matteo Pasquetto nel 2019 ci eravamo spinti ancora un tiro oltre a questo punto, prima di battere in ritirata.

Ora tocca di nuovo a me cercare di spingermi più in là su terreno, per noi, incognito. Dalla mia parte questa volta ho i nuovi camalot #7 e #8, voluti fortemente da Giga, i quali si riveleranno armi fondamentali per superare le lunghezze che ci aspettano. L’angolo del diedro strapiombante e il particolare stile di scalata, fanno sì che mi sarebbe stato assolutamente impossibile salire senza questi due “giga-friend”, ed anche con questi a disposizione, mi devo ingegnare non poco per progredire verso l’alto, alternando tratti in libera a svariati resting e tratti di artif. Ogni tiro è il genere di lunghezza che, se la trovi in un posto come Indian Creek, dopo averla salita, vorresti riposare almeno due ore, prima di ripartire. Ed invece qua tocca andare avanti senza perdere tempo, se davvero vogliamo arrivare in cima al Torre. Giungo esausto alla fine del diedro, dove scopriamo che, ancora una volta, siamo completamente appesi agli imbraghi e non c’è l’ombra di un terrazzo su cui scaricare il peso sui piedi.

Per fortuna  c’è la nostra fidata portaledge, progettata da John Middendorf e costruita da Aideerclimbing, in modo specifico per questa salita. Il secondo problema di questo bivacco è il fatto che, essendo appesi nel vuoto, non vi è traccia di neve da sciogliere e quindi, nemmeno acqua da bere. A fatica, spicozzando nel fondo di una fessura, David riesce a tirare fuori alcuni blocchi di ghiaccio, sufficienti a ricavare circa 1 litro e mezzo di acqua. Magra consolazione dopo una giornata campale come quella appena passata. Ripensando a Phil Burke e Tom Proctor che nel 1981 avevano già salito tutto questo diedro ed ancora una decina di tiri sulla Nord, non posso che “togliermi il cappello” davanti ad una performance mostruosa ed assolutamente visionaria per quegli anni. La mattina del terzo giorno è ancora Giga a partire da primo. Con grande abilità risolve molto velocemente l’arco rovescio di artificiale, che conduce fuori dall’enorme diedro e fa sosta in una posizione incredibile: proprio sullo spigolo che divide la parete Est e la parete Nord.

Qui l’angolo della parete cambia e dopo un giorno appesi agli imbraghi possiamo scaricare un po’ di peso sui piedi. Le difficoltà però non sono certo terminate, anzi, tutt’altro! La Nord si preannuncia difficile e carica di incrostazioni di ghiaccio e neve. Traversiamo una trentina di metri per addentrarci nella parete Nord e qui troviamo la sorpresa che dà la svolta alla giornata ed alla salita. Neanche ci fossimo dati appuntamento, incontriamo Tomy Aguilo e Korra Pesce, impegnati ad aprire la loro linea sulla Nord. Hanno scalato tutta la notte ed ora si trovano lì davanti a noi: Tomy sta scalando, mentre David raggiunge Korra in sosta. Tomy e Korra ci propongono di seguirli fino alla vetta del Torre, lungo la loro via nuova - “La norte” - che stanno aprendo, e noi dopo un rapido consulto, siamo ben felici di accodarci a due alpinisti  dall’enorme esperienza e conoscenza della parete come loro. D’altronde in un ambiente del genere riteniamo sia meglio per tutti stare uniti e non disperderci.

David ripercorre da primo i due tiri seguenti, appena saliti da Tomy e Korra: il primo di roccia, il secondo lungo una esile goulotte di ghiaccio. È già quasi mezzogiorno, la giornata è stupenda e il caldo che si sta alzando personalmente mi preoccupa non poco, siamo tutti consapevoli di trovarci in un luogo molto esposto. Sul tiro successivo sono io a seguire da primo la cordata italo-argentina, mentre su quello dopo, che sembra più difficile, decido di passare la mia corda a Tomy e quindi farmela fissare e risalirla. Onestamente più che dalla difficoltà - comunque il tiro non sembra per nulla facile - sono preoccupato dalla possibilità che mi cada del ghiaccio addosso e voglio solo uscire da quel dedalo di funghi ghiacciati il prima possibile. Lassù in cima inizia a vedersi il fungo di neve finale, ma ancora almeno 150 metri ci separano da quest’ultimo.

 

Dopo un tiro più facile che scalo, ci aspetta un’altra lunghezza impressionante a vedersi, dove Korra passa (e staziona diversi minuti facendo il cambio scarpette-scarponi) sotto un gigantesco fungo di ghiaccio, il quale è attaccato solo da un lato e sembra possa cadere da un momento all’altro. Per la seconda volta mi faccio fissare la corda e la risalgo. Non ho rimpianti di averlo fatto, ma è giusto essere onesti e precisarlo, nel rispetto di Korra che invece quei tiri li ha aperti e scalati da primo di cordata. Ora solo due tiri ci separano dalla cima: il primo lungo una ripida goulotte di ghiaccio spetta a me e quindi il famigerato “fungo” finale, in comune con la “via dei ragni”. Sono circa 40 metri di neve verticale, senza grandi possibilità di piazzare protezioni. David lo affronta senza indugi e con grande maestria sbuca sul plateau sommitale a pochi metri dalla cima del Torre. Data la natura tecnica di questo resoconto, non mi dilungherò troppo sulle emozioni vissute al momento della vetta, da noi raggiunta poco prima delle 18 del 27 gennaio. Korra e Tomy ci propongono di scendere insieme a loro, sono molto convincenti, ma noi siamo esausti, abbiamo portato fino in cima al Torre una portaledge, cibo in abbondanza, un sacco di attrezzatura tecnica pesante tra cui gli enormi camalot, un vecchio martello “Chouinard” degli inglesi e perfino il drone, che ci teniamo a far volare in tutta calma al tramonto. È difficile dividerci, ma salutiamo i nostri amici e ci godiamo una lauta cena e quindi un bivacco in cima al Cerro Torre.

Quando mai ci ricapiterà nella vita un’occasione simile?!? Venerdì 28 gennaio con calma, tranquillità e senza voler sbagliare nulla, scendiamo dalla mitica “via del compressore”. Dopo circa una trentina di calate a corda doppia, alle 17 posiamo nuovamente i piedi sul ghiacciaio alla base del Torre. Qui inizia una seconda avventura, ancora più impegnativa e per me più importante della prima, della quale ci sarà modo di fornire tutti i dettagli con la dovuta calma ed in una separata sede. La nostra via non percorre tratti di parete mai scalati da nessuno prima, ma, per come la vedo io, il valore di questa salita è nell’aver scalato una parete del genere in stile alpino.

 

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