"The Mule", il testamento di Eastwood

La recensione dell'ultimo lavoro dell'attore-regista.

"The Mule", il testamento di Eastwood
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Analisi poco "corretta" del film dell'anno.: "The Mule" l'ultima pellicola dell'attore-regista Clint Eastwood.

"The Mule", il testamento di Eastwood

Se gli Oscar premiano un'agiografica fiction su un gruppo pop che non ha aggiunto nulla alla storia della musica, o l'ennesima telenovela del bello e maledetto che conquista l'ugola passerina, sinceramente, non ce ne frega un beneamato cazzo. Perchè, in barba ai radical chic dell’Academy che penalizzano Clint Eastwood solo perché è uno che se ne fotte di ogni sistema, e se gli gira sostiene pure quel pazzo di un Trump, noi siamo ancora sul pick up Ford di Earl Stone a cantare con lui vecchie canzoni country lungo la strada dall’Illinois al Texas. Se poi il bagagliaio è pieno di droga, ce ne faremo una ragione.

Quando esco dal cinema e per tutto il viaggio di ritorno a casa non riesco a dire una parola, bombardato dai pensieri, vuol dire che ci siamo: “The Mule” è probabilmente l'ultima grande interpretazione da protagonista del quasi novantenne monumento vivente del cinema mondiale, e i soloni di Hollywood, fra un gorgheggio di Martini Cocktail e un solfeggio di Moscow Mule, la sua presenza scenica di eleganza inarrivabile, hanno finto di non vederla. D'altronde avevano già snobbato qualcosa come "Gran Torino" dieci anni fa. Il giorno in cui il grande cinema classico di Clint non ci sarà più, e ci propineranno solo star da box office o diavolerie tecnologiche costruite al computer, forse ci renderemo conto che un altro riconoscimento per lui (che, scandalosamente, non ha mai vinto la statuetta da interprete), non sarebbe stato un eccesso.

 

“Il mulo” si colloca fra “Million Dollar Baby” e il già citato “Gran Torino”, nel filone del Clint anziano ma vivo, che ormai guarda con disprezzo al mondo di oggi, ne malsopporta la frivolezza, ma ci sghignazza sopra. Earl è così: coltiva per tutta la vita un fiore che vive un giorno solo, e fallisce con la sua famiglia, chiama negro uno di colore, ma poi lo aiuta a cambiare una gomma, grida un affettuoso “ciao lesbiche” a un gruppo di motocicliste lesbiche. Ma soprattutto, a seguito dell’avvento di quel “maledetto Internet” che lo ha rovinato, trasporta droga per soldi, e con quelli vive e tiene viva la decadente associazione veterani di guerra del paese. Assiste l’ex moglie quando è morente, e alla fine confessa la colpevolezza, senza elemosinare scorciatoie. Solo una sua espressione facciale in questo film vale la cinematografia degli ultimi dieci anni. In Earl ci siamo noi, coi nostri peccati, i nostri demoni e le nostre redenzioni, ma capaci di piantare un fiore.

 

Clint ha letto un trafiletto di giornale che raccontava un curioso fatto di cronaca - un corriere della droga quasi novantenne arrestato - e gli ha sceneggiato attorno una storia che smonta pezzo per pezzo la società di plastica che siamo diventati, esaltando una vita vissuta rifiutando di restare attaccati a uno smartphone. Tutto questo è una cosa che solo lui poteva fare. Perfetto il cameo di Andy García, solo marginale il ruolo di Bradley Cooper. Non c'è commento finale a “The Mule” migliore di quello che ha espresso il mio amico Tancini alla fine di questo ennesimo viaggio cinematografico in nome dell’uomo di Carmel: "C'è solo una cosa brutta di questo film. Probabilmente è l'ultimo". Sì, il suo fisico prosciugato e i suoi occhi umidi dietro a quel terremoto di rughe danno la sensazione del testamento. Ecco, se una regia occulta c’è, speriamo abbia un po’ di riguardo per questo dinoccolato e caracollante novantenne che lavora come cinematografaro. Altri quattro o cinque gioielli - forse un nuovo western - ce li deve concedere. Anche solo per far piovere un po’ di merda sui salotti del buonismo.

(M.Q.)

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