Green Deal e automotive: un'industria in crisi tra regolamenti UE e sfide di mercato
Plinio Vanini (Autotorino): "L'Europa ha corso troppo senza ascoltare i consumatori, mettendo a rischio un'intera filiera"
Le ricadute del Green Deal europeo sull’automotive sono drammatiche. Ne è convinto anche Plinio Vanini, presidente di Autotorino, il primo dealer nazionale e unico italiano tra i 30 più rilevanti in Europa, un’azienda presente nel Belpaese con ben 71 filiali, 2.900 collaboratori, 73.000 auto vendute e un fatturato di 2,7 miliardi. Un gruppo che da fine gennaio 2025 è pure entrato in Polonia acquisendo la filiale Mercedes Benz di Varsavia, che occupa circa 300 persone. Vanini, che ricopre anche la carica di vicepresidente con delega al settore Auto di Federauto, ha le idee chiare sulle politiche europee e sullo stato di salute della filiera dell’automotive: «L’Europa non ha ascoltato i consumatori. Ha compiuto un passo scellerato non in linea con il mercato, con il risultato di distruggere un’importante filiera europea».
Il settore è nel bel mezzo di una rivoluzione perché il Green Deal, dal gennaio 2025, prevede nuovi e più stringenti limiti sulle emissioni di CO2 e l’obbligo di emissioni zero per le nuove auto prodotte dal 2035. Tutto ciò sta minando una filiera che in Italia conta 551 mila addetti che lavorano in 177 mila imprese (i laboratori in Lombardia sono circa 100 mila e operano in 30 mila aziende). Un clamoroso harakiri…
«La politica e l’industria hanno corso troppo senza ascoltare il consumatore. È stato compiuto un passo troppo veloce e avventato, non si è andati a fondo nel capire che l’Europa non è tutta uguale, che i clienti non sono tutti uguali; mancano le infrastrutture e la possibilità di installare colonnine di ricarica in numero adeguato, soprattutto nelle città, dove è più alta la concentrazione di popolazione e di automobili e già oggi è difficile trovare un semplice parcheggio quando si torna a casa».
L’obiettivo è quello di ridurre l’inquinamento e rendere l’Unione europea la prima zona al mondo a impatto climatico zero entro il 2050.
«Questa, però, non era l’unica via. Bisogna capire se queste direttive sono state scritte ed emanate con incoscienza o malafede, o con la presunzione di poter cambiare il mondo in un secondo anziché con i tempi necessari. Ma le responsabilità non sono solo della politica».
Di chi sono?
«Il mondo dell’impresa non è stato capace di intavolare un confronto efficace, in cui far valere ragioni di buon senso e di oggettiva necessità strutturale sulla cui base avviare una fase di cambiamento tecnologico e produttivo, sì nel rispetto di un nuovo e virtuoso rapporto con l’ambiente, ma soprattutto sostenibile a livello commerciale, economico e sociale. Invece, allo stato dei fatti, ora le fabbriche sono costrette a inseguire, a produrre secondo le regole del Green Deal per poi fermarsi perché il mercato non assorbe l’offerta».
L’idea di rallentare questo percorso si sta facendo strada in modo trasversale. Regione Lombardia, attraverso l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha creato un movimento trasversale. A novembre ha organizzato un summit all'Autodromo di Monza per fare il punto sul tema automotive coinvolgendo ben 36 regioni europee di cui 8 italiane. Come giudica il lavoro di Guidesi che è poi stato eletto presidente dell’Automotive Regions Alliance?
«È indubbiamente un lavoro positivo, ma voglio essere pragmatico: o siamo nelle condizioni di poter incidere modificando i regolamenti, oppure questo sforzo sarà inutile. Così com’è l’Europa non funziona. L’effetto di queste regole è antidemocratico, non permette a chi dispone di un reddito medio-basso di avere un’auto perché oggi - per l’effetto degli aumenti generali e dei costi dell’elettrico - è diventato un bene per pochi, un prodotto di lusso. Alcune case automobilistiche non hanno più convenienza a produrre auto piccole. Forse si potevano adottare altre misure per avere un parco auto meno inquinante: i 20 milioni di auto obsolete che ci sono oggi in Italia sono principalmente di persone che non possono permettersi di cambiare mezzo, tanto meno alle condizioni attuali».
E così la vendita di auto nuove diminuisce, la crisi di Stellantis con Tavares esplode (nel 2024 l’ex Fiat ha prodotto meno di 500 mila auto, il livello più basso dal 1956), persino il colosso Volkswagen annuncia licenziamenti e la chiusura di fabbriche, mentre i cinesi sorridono. La filiera dell’automotive è arrivata al capolinea?
«Intanto non addosserei a Tavares tutte le responsabilità: l’ex ceo di Stellantis ha agito secondo indicazioni strategiche avallate dal Consiglio di amministrazione».
Vanini non lo dice, ma è chiaro che le indicazioni di massimizzare i profitti per gli azionisti senza curarsi troppo dell’azienda non sono farina del sacco del top manager. Del resto, anche in passato Fiat ha sempre socializzato le perdite e distribuito gli utili ai suoi azionisti. Il presidente di Autotorino allarga il discorso: «Cosa abbiamo fatto per sostenere la competitività dell’Azienda Paese? Le nostre imprese devono fare i conti con i costi energetici più alti d’Europa, un mercato del lavoro regolato da norme ingessate, non in linea con i tempi, burocrazia e giustizia hanno una farraginosità che non permette di avere un’industria in grado di competere. Questi tre elementi non aiutano l’Italia ad attrarre aziende e investitori. Con l'aggregazione che ha portato alla nascita di Stellantis, inevitabilmente la produzione è stata portata nei luoghi più convenienti. Oggi riusciamo a essere attrattivi solo quando produciamo oggetti di lusso, di nicchia, ma non basta».
Tutto ciò alimenta incertezza tra i consumatori. Il mercato elettrico in Italia non decolla e rappresenta solo il 3,9% mentre in Europa pesa il 14,4% Una bella differenza.
«Sì, ma vorrei analizzare bene questo 14,4%, cioè capire quante sono le autoimmatricolazioni ancora sui piazzali. Il mercato dell’elettrico non cresce per i costi, ma anche per la mancanza di infrastrutture. In Italia abbiamo 60 mila colonnine pubbliche, la cui distribuzione non è adeguata per i mezzi circolanti, figuriamoci per soddisfare un mercato che ha l’ambizione di crescere. Poi, certo, ci sono le colonnine domestiche, ma quanti posseggono un box, specie nelle grandi città? Con queste premesse come possiamo raggiungere l’obiettivo utopistico di 20 milioni di auto elettriche?».
La sua è una bocciatura su tutta la linea e senza appello.
«La mia non è una posizione ideologica: come concessionari vendiamo auto e garantiamo servizi di mobilità, tra cui rientra anche quella elettrica. Non preferiamo una tecnologia rispetto a un’altra, però abbiamo una posizione di responsabilità nei confronti dei consumatori. Sono cinque anni che cerchiamo di far capire che questa pianificazione non rappresenta la realtà del mercato, né una prospettiva compatibile, né tanto meno sostenibile».
Veniamo alle novità che interessano più da vicino la sua azienda. Autotorino è stata la prima concessionaria a credere nelle auto coreane (Kia e Hyundai su tutte) quando rappresentavano una micro nicchia. È con la stessa lungimiranza che oggi state scommettendo sulla cinese BYD che nel terzo trimestre 2024 ha sorpassato la rivale Tesla?
«Nessuna lungimiranza, siamo nati dal nulla, abbiamo iniziato a cercare opportunità dove qualcuno ci dava fiducia perché i grandi marchi, le case più blasonate, giustamente non davano molto peso a un’azienda che stava nascendo. Noi ci abbiamo creduto, ci siamo sentiti dalla parte del cliente, abbiamo ampliato l’offerta per il consumatore, favorito la competitività e forse siamo stati anche un po’ precursori di un cambiamento. E abbiamo guadagnato anno dopo anno fiducia anche di nuove Case. La scelta di BYD ci permette di offrire mobilità a un numero maggiore di clienti. La mobilità deve essere democratica, per tutti, e quindi dobbiamo disporre di una gamma di prodotti più ampia possibile. Ad oggi abbiamo aperto 8 concessionarie della Casa cinese, che raddoppieremo in breve tempo».
Dopo un anno record Autotorino è sbarcata in Polonia. Con quale obiettivo?
«È un mercato interessante, in espansione e nel quale crediamo; ma si tratta anche di iniziare una diversificazione al di fuori dell’Italia, in cui rimaniamo radicati e di cui esprimiamo un modello d’azienda di successo. L’obiettivo è di mettere alla prova il nostro sistema di governance e di business, andare in luoghi nuovi, condividere know-how e imparare. Un’azienda per crescere deve avere la voglia di uscire dalla propria zona di comfort, calcolando opportunità e rischi del caso».
In Italia il numero delle concessionarie è sceso a quota 900, anche per effetto delle concentrazioni, conta circa 90 mila addetti e rappresenta circa un terzo della filiera automotive. Le concentrazioni continueranno?
«È una strada inevitabile, ma come categoria dovremmo imparare a comunicare meglio, proprio perché rappresentiamo un terzo della filiera. Le concentrazioni permettono alle aziende di ottimizzare la propria gestione e di poter continuare a investire in ricerca e sviluppo per evolvere con i tempi. L’innovazione non è la vendita di un servizio in più, ma la creazione di piattaforme tecnologiche che ti consentono di trovarti nei luoghi di incontro dei clienti e i sistemi che ti consentono di governare il business. In Autotorino, ad esempio, abbiamo oltre 200 persone - in gran parte ingegneri, statistici e matematici - che creano, operano e monitorano decine e decine di moduli di business intelligence da cui possiamo leggere, intervenire e migliorarci su ogni singolo settore, operazione e dettaglio. Noi innoviamo da almeno 27 anni mantenendo solide radici in Valtellina, dove siamo nati, e gli investimenti non finiscono mai. Siamo la fabbrica di un prodotto non visibile: la vicinanza al pubblico, grazie d una tecnologia che poi viene umanizzata da una persona che entra in contatto con il cliente».